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CAMMINARE: UNA STRADA PER CONOSCERSI
Agosto 2016. Un amico che non sentivo da anni pronunciò una parola che non aveva nulla a che vedere con il camminare, ma che fece scattare in me un inconsulto imperativo: “Vai a calpestare un pezzo di Via Francigena”.
Non avevo mai intrapreso cammini, ma sette giorni dopo partii. Sbagliando scarpe e zaino, ovviamente.
Pensavo che la difficoltà del cammino fosse lo sforzo fisico dei chilometri. No. Il problema non è la fatica, ma il dolore ai piedi, alla schiena, alle spalle e ai fianchi.
Eppure si può avanzare con una tenaglia negli scarponcini che ti stritola le dita e decidere di portare l’attenzione sulla bellezza del paesaggio, come quando si soffre per una ferita che ancora sanguina, ma si alza lo sguardo per contemplare un gabbiano e il suo insegnarci a ‘volare alto’.
Poi c’è lo zaino che, se contiene inutili zavorre, rende gravoso il procedere.
“Ecco perché quando ci portiamo appresso macigni di rabbia e sofferenza - penso mentre arranco sotto la canicola delle 13 - vaghiamo sempre attorno allo stesso punto, incapaci di incontrare il nuovo”.
San Miniato. Al mio arrivo al convento di San Francesco incontro un pellegrino d’eccezione; è uno spagnolo che cammina da tre anni e che ha già percorso quattordicimila chilometri;
si chiama Alberto Castellò de Pereda, è originario di una piccola cittadina vicina a Valencia, non ha soldi in tasca e alla domanda: «Qual è il tuo ricordo più bello?» risponde che è questo momento che sta vivendo con me.
Gli chiedo cosa farà domani, non lo sa perché «noi camminiamo ogni giorno di luogo in luogo e le persone che incontriamo sono quelle che stanno aspettando il nostro arrivo» afferma citando il Dalai Lama.
Aggiunge: «Prima avevo tutto, ma non avevo niente, adesso non ho niente, ma ho tutto».
Alberto non ha mai pensato che potesse succedergli qualcosa di spiacevole e così è stato perché «se immaginiamo situazioni negative, le creiamo», afferma.
Per ogni difficoltà il suo approccio è lo stesso: «Se c’è una soluzione, perché preoccuparti? Se non c’è una soluzione, perché preoccuparti?»
Oltre ai pellegrini, lungo i sentieri di quel tratto magnifico di Toscana, ho incontrato prati silenti, cipressi pennellati sui crinali, distese ordinate di ulivi, cascinali di pietra, terra spaccata da crepe riarse, ruscelli borbottanti, viti pettinate e boschi di abbracci.
E poi c’erano le frecce che indicavano il sentiero e non vederle significava perdersi, come è successo a me, e come accade con gli eventi quotidiani, segnaletiche che, se non cogliamo, perdono il loro scopo e diventano impotenti osservatori del nostro confuso errare fra voragini di depressione e deserti di sconforto, alla ricerca di un’introvabile pace.
La Via Francigena, come tutti i cammini, è una rappresentazione dell’esistenza.
Calpestandola si impara a conoscersi e a superare i propri limiti. C’è la luce dell’alba, mentre si cammina respirando la rugiada della notte, e c’è l’intima essenza del proprio cuore che si rispecchia nei cieli infiniti.
L’essere soli, immersi nella natura, ci regala l’incontro con chi siamo: un uno, un tutto, che non necessita d’altro. È a questo punto che possiamo tornare a casa, portandoci dentro il mondo.
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