CHI SIAMO DIETRO LA MASCHERA CHE INDOSSIAMO? 

Il fatto che ricordo è di alcuni anni fa, ma episodi analoghi succedono quotidianamente nel mondo, mentre noi continuiamo imperterriti a incollare etichette. Non è cattiveria, il giudizio fa parte della nostra natura; non possiamo osservare qualcuno o qualcosa senza formulare un appellativo: è simpatico, odioso, invecchiato, musulmano, ricco, medico, secchione, amico…

È normale, abbiamo un corpo e siamo persone, che significa maschere e, in quanto tali, recitiamo il nostro copione sul palcoscenico del mondo, identificandoci nel ruolo che ci hanno assegnato e che ci riveste come un’armatura che indossa la vita al posto nostro.

Ma dietro il travestimento, chi siamo veramente?

Assistere al dramma che si consuma quando le etichette si colorano di morte, ci consente di vedere gli invisibili post-it che incolliamo ovunque e che spesso, come nella vicenda che segue, identificano il credo religioso.

È il 21 dicembre del 2016, un autobus si sta dirigendo verso Mandera, una città nel nord-est del Kenya, quando un gruppo di terroristi ferma il bus; gli uomini armati di Al-Shabaab, vestiti in tuta mimetica e con il volto coperto, fanno scendere i passeggeri e intimano loro di dividersi in due gruppi, cristiani e musulmani, perché solo gli ‘infedeli’ verranno ammazzati.

Ma ecco l’imprevisto: prima di abbandonare il bus, alcuni musulmani cedono i loro veli (le etichette) ai cristiani. Una volta scesi Salah Farah, insegnante keniota di religione islamica, 4 figli e una moglie incinta, urla ai criminali di uccidere tutti o di lasciare tutti liberi. In risposta i terroristi gli sparano.

Mentre lo scontro è in atto si avvicina un camion; i killer, temendo possa essere la polizia, si nascondono in un cespuglio e i passeggeri si precipitano sul bus e scappano. Salah Farah morirà in ospedale un mese dopo a causa delle ferite inferte.

Prima di chiudere gli occhi dirà al Voice of America: “Siamo fratelli, è la religione a fare la differenza, quindi chiedo ai miei fratelli musulmani di prendersi cura dei cristiani in modo che i cristiani possano prendersi cura di noi”.

In quella parola ‘fratelli’, Salah Farah annuncia che l’unica etichetta possibile è quella di esseri umani, uomini e donne uguali nella loro essenza regale, tutti soggetti al medesimo destino: la vita.

Il gesto eroico dell’insegnante keniota testimonia la potenza che affiora quando smettiamo di interpretare una parte e, spogliati dei titoli e segnaposti, portiamo alla luce Chi veramente siamo: pura essenza d’amore.

Contattare la nostra natura autentica è lo scopo dell’esistenza che si svolge dietro una maschera forse proprio per diventarne consapevoli, smascherando le divisioni che la nostra mente produce dentro e fuori di noi.

In realtà non siamo affatto separati, siamo Uno con tutto e con tutti, con la Creazione come con i fratelli, ed è solo quando lo sperimentiamo che riconosciamo i giochi di coloro che ci dividono mettendoci uno contro l’altro, per poterci controllare.

È uno schema antico quello del dìvide et ìmpera (letteralmente dividi e comanda), ma se lo vediamo, torniamo ad essere uomini e donne liberi di scegliere l’unità cioè il Paradiso che, se non fosse di questo mondo, non potrebbe di certo chiamarsi terrestre.

 
#6 febbraio 2021
#GiornaleDiBrescia
 



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