LA VOCE DI UN ABETE FERITO ARRIVA IN CITTA'
Ho sete, ma non è la stessa sete di quando il cielo non gocciola più la sua acqua preziosa, adesso ho sete della mia linfa, quella che mi scorre dentro, quella che mi fa vivere.
I miei canali urlano prosciugati dal bostrico tipografo che, annidato sotto la mia corteccia, si sta nutrendo del mio sangue, goccia dopo goccia. Ho cercato di annegarlo con la resina, il maledetto, ma non ha funzionato.
Il ladro mi è volato addosso alcune settimane fa ma non mi sono insospettito, ero sano e lui si è sempre occupato dei fratelli in fin di vita aiutando i deboli e i malati a decomporsi e favorendo, con la sua opera, la rigenerazione del bosco.
Dopo la tempesta di Vaia, tuttavia, grazie ai tantissimi alberi abbattuti e al cibo esageratamente abbondante a sua disposizione, mi avevano riferito che fosse diventato un traditore e che non guardasse più in tronco nessuno.
Le radici raccontavano anche di noi abeti rossi, dicendo che non saremmo nemmeno dovuti crescere a queste latitudini un tempo abitate dalle faggete.
Comunque sia andata, ora mi ritrovo abitato da una popolazione di canaglie che mi stanno dissanguando. I miei aghi impallidiscono, si seccano, cadono. Perdo brandelli di corteccia, sono ogni giorno più debole e nudo.
Me ne sto andando in piedi come un eroe che assiste consapevole al proprio declino dopo aver già visto andarsene figli e amici. Al primo vento cadrò anch’io.
Il mio legno rosso macilento parlerà del sangue di quando ero vivo, del mio aver combattuto armato di resina l’infame bostrico e, sdraiato a terra tra felci e sambuchi, attenderò paziente la rinascita perché i miei semi sono già dappertutto e la morte, lo so, è solo un cambio d’abito.
All’improvviso ecco uno schianto. Il mio. Sordo. Secco. Implacabile. Torno ad essere terra nella terra. I miei rami stesi sembrano braccia imploranti, ma questa non è la fine.
Un giorno sarò ancora germoglio, adolescente fuscello, giovane virgulto e indomabile bel fusto felice di onorare la bellezza di essere ancora vivo, perché niente e nessuno potrà mai fermare la vita. Non un insetto. Non una tempesta. Non la stupidità umana.
«È per portare la voce di questo abete in città - spiega Fabio Racheli - che mi sono caricato sulle spalle un pezzo di bosco dell'alta Val Trompia nello stato in cui si trovava e l’ho collocato nello spazio esterno del Museo di Scienze Naturali».
L’iniziativa della mostra artistico-divulgativa diffusa ‘Elogio del Limite’ (aperta fino al 7 gennaio) che Cauto ha allestito nel museo di Brescia di via Ozanam esplora il delicato rapporto Uomo/Natura e prende forma nel cortile d’ingresso con l’opera di Land Art di Fabio Racheli e negli spazi interni con i pannelli dei fratelli Radici.
Obiettivo di Cauto è servirsi dell’arte per smuoverci dal nostro essere immobili osservatori di un disastro ambientale e climatico senza precedenti. Perché aspettare, dice un proverbio indiano, l’ultimo albero abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato per renderci conto che non possiamo mangiare il denaro?
‘Elogio del Limite’ è un urlo a esplorare i propri confini per oltrepassarli, a guarire il Pianeta per continuare a viverci e ad aprire le orecchie per captare il grido della Terra.
Fotografia scattata da Mattia Racheli @mattiaracheli
LINK RACCOLTA ARTICOLI 2020-2021
#23settembre2023
#GiornaleDiBrescia
LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI