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PLANANDO SOPRA BOSCHI DI BRACCIA TESE
Le ho vissute perché le ho ardentemente desiderate, le notti in foresta. Volevo tuffarmi nella natura, e nel suo immenso amore. Volevo, come cantava Battisti, planare “sopra boschi di braccia tese, respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini”.
Così, insieme ad altri esploratori del bello, mi sono trovata a calpestare i sentieri delle foreste casentinesi che si snodano fra abeti bianchi, simbolo per i frati camaldolesi di elevazione spirituale, e candidi faggi che, timorosi della luce, crescono fitti per proteggersi dai raggi del sole.
All’ombra di questi giganti, su distese fiorite di salvia dei boschi, abbiamo camminato in religioso silenzio addentrandoci in una cattedrale dalle colonne pregne di centenaria saggezza, respirando ad ogni passo, il riverbero potente di Chi siamo.
Al calar della sera, mentre il sole incendiava le chiome, abbiamo varcato il portale della faggeta dove avremmo dormito accompagnati dalle guide del parco e dagli amici de “La via delle foreste” coordinati da Enrica Bortolazzi, mente creatrice di questo progetto.
Sotto i piedi un profumato tappeto di foglie secche. Sopra la testa un tetto di fronde verdissime. A tratti, sconfinati assaggi di blu.
Nel mezzo solo i faggi che avrebbero custodito i nostri sogni, sorretto le amache e confortato le ataviche paure che il buio avrebbe potuto risvegliare.
Lentamente l’oscurità ha conquistato il cielo e noi, muniti di torce sulla fronte, abbiamo lasciato la radura impregnata delle nostre risate, per raggiungere le amache sparse nel vasto pianoro, richiudendoci al loro interno.
Entrare nel giaciglio pensile è stato un inaspettato ritrovarci nell’ovattata coccola di un grembo materno, cullati dal fruscio melodico delle fronde, con lo sguardo incantato dal fluttuare delle cime.
Poi il bosco ha preso vita.
Nella dolcezza della luna che giocava a nascondino fra le fronde. Nell’abbaio del capriolo abituato a dormire in quella faggeta. Nella curiosità delle lucciole appoggiate alla zanzariera. Nella profondità delle stelle che spuntavano come gemme preziose incastonate nel ramificato tessuto del cielo.
Il vento faceva da colonna sonora a volte con immobili assoli, altre volte levandosi impetuoso a spezzare i nostri sogni, ma (per fortuna) non le amache che ondeggiavano sullo sfondo della notte ammantata di sublime bellezza.
All’alba, ancora accoccolati nel nostro nido, abbiamo indugiato nella contemplazione del cielo verde di foglie e ovattato di mattino poi, lentamente, abbiamo aperto la zanzariera e siamo usciti come farfalle che lasciano il loro involucro, dispiegano le ali e, finalmente libere da ciò che non serve più, volano con “un sorriso che non ha più un volto né più un’età”.
È stato questo il regalo più grande: ritrovarci a svolazzare scanzonati, scherzando su chi si era ribaltato, su chi aveva ululato scambiando il vento per un cinghiale, ma soprattutto su quel bozzolo sfarfallato che avevamo restituito alla terra insieme al suo inutile fardello.
E al nostro vecchio strisciare.
Mentre l’umidità stemperava nella faggeta un velo di trasognata nostalgia, e le nuvole gonfie di acqua si chiedevano se fosse il caso di lavarci un po’, i caprioli ci osservavano partire incuriositi dai nostri zaini alati.
#7agosto2021
#GiornaleDiBrescia
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