ESSERE SOLI E NON SOFFRIRE LA SOLITUDINE

Mia madre amava andare in Toscana per alloggiare in una casa immersa nel silenzio di una pineta; mentre era là non aveva l’abitudine di telefonare a nessuno e, quando la si cercava, era spesso sbrigativa perché impegnata in faccende pratiche o in letture spirituali.

Un giorno la chiamai e, alla mia domanda se non si sentisse sola, rispose: «Sola? Non lo sono mai. Ho il mio Signore sempre con me». La risposta mi lasciò perplessa e mi ci vollero anni per afferrarne il significato profondo. 

Successe quando incontrai persone che, a differenza sua, soffrivano la solitudine. Nelle loro abitazioni avvertivo una morsa dolorosa che mi svuotava; era una sorta di tacere assoluto che rendeva l’aria opprimente nonostante lo stereo o il televisore fossero accesi.

Erano, queste case, voragini energetiche che amplificavano un’assenza. Le percepivo come covi di bisogni e, i loro abitanti, come prede di una sete ‘indissetabile’ che li costringeva a cercare di continuo distrazioni, per sedare l’intimo e riarso baratro interiore che li consumava. 

Poi conobbi Enrico che viveva, in compagnia del suo sorriso, in una casetta isolata sul cocuzzolo di una montagna. Lassù non respiravo un’assenza, ma una Presenza pacificante. Fra le pareti di quella semplice dimora, Enrico non necessitava di compagnia alcuna, ma gioiva di ogni visita come di ogni cosa, bella o brutta che fosse.

Lui era solo e felice mentre altri continuavano a collegare la solitudine alla tristezza. Perché? 

“Si tratta di un’associazione assolutamente sbagliata, di una falsa interpretazione - mi rispose Osho nel suo libro “La verità che cura” - La felicità che deriva dallo stare con le persone è molto superficiale, mentre la felicità che accade quando si è soli, è incredibilmente profonda”.  

L’essere soli, secondo Osho, era quindi una condizione privilegiata, uno stato meditativo: “Canta qualcosa, danza qualcosa, oppure siedi semplicemente in silenzio di fronte a un muro e aspetta che qualcosa accada.

Rendi quel momento un’attesa e, ben presto, percepirai una qualità diversa (…) Aspetta semplicemente per un po’. Lascia che quell’affondare scenda ancor più in profondità e vedrai affiorare un silenzio, una quiete immobile che ha in sé una danza.

È un moto immobile interiore. Nulla si muove, eppure tutto vortica freneticamente; è un vuoto, eppure è assoluta pienezza”. 

Quest’ultima frase del mistico indiano mi riportò al mio aver captato in alcune case una ‘mancanza’ e in altre una ‘Presenza’, condizioni che non erano dovute agli arredi più o meno curati, ma all’energia degli inquilini.

Chi era spezzato dentro emanava nell’ambiente il suo sentirsi isolato, diviso, vuoto.

Chi era nell’accettazione e nella gratitudine, irradiava il benessere di chi vive una condizione di completezza e di unità (Solitudine da ‘olos’ in greco antico ‘tutto’, ‘intero’).

Se per un attimo provassimo a considerare la questione in questi termini, non varrebbe la pena di incontrarla davvero l’interezza profonda e assoluta di Miss solitudine? Nel silenzio di un prato. Nel tacere di una cucina. Nel muto osservare una foglia d’autunno che si stacca, volteggia e se ne va. Senza rimpianti. 

 

#30ottobre2021
#GiornaleDiBrescia


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